Camei

Praga
Un cigno pesca nell’acqua,
vento freddo tra i capelli,
sullo sfondo il ponte Carlo.
La Moldava silenziosa,
le note di Smetana possenti e gioiose
che paiono prorompere da essa.
Nel giardinetto i passetti di un cane
seguito da una vecchia signora
che mi sorride dolce e complice.
Sembra dire
”Anche tu ti sei fatta affascinare dalla magia di Praga”.
E’ vero.
Vi ho appena messo piede – ieri sera,
dopo un allegro viaggio in macchina con Laura, Carlo, Maria-
e già ne sono ammaliata.
Lo ero già prima di partire.
Praga dai tetti d’oro.
“E’ proprio d’oro” pensavo stanotte
prima di sprofondare nel sonno.
E’ d’oro la sua atmosfera, è d’oro la sua energia
che ti avvolge in un sorridente abbraccio.
Camminavamo sotto braccio, per ripararci dal freddo, attraversando il ponte Carlo.
Guardavo le luci, la bellezza delle Torri sullo sfondo, le statue che paiono vive.
Ad ogni passo un’atmosfera di nebbiosità rarefatta mi incantava.
Gioia e gratitudine per essere lì.
"Praga mi chiama" avevo detto agli amici.
Cammino sullo splendido ponte,
con le suggestive luci della notte
e sento una commozione pervadermi.
Se fossi sola mi lascerei andare
ad un pianto di gratitudine per tanta bellezza.
Mi vien da pensare che ogni città ha i suoi penati,
i suoi dei protettori.
Cerco di mettermi in sintonia con loro,
in una silenziosa preghiera,
perché mi consentano di gustare
e di cogliere il meglio che è a loro affidato.
Sento il loro sorriso, la loro benevolenza
e so già che mi offriranno il meglio.


Quante volte, quando siamo in viaggio ci lasciamo andare a vivere con una certa superficialità quello che ci sta intorno. Seguendo un po' l'onda, e mai gustando veramente e intimamente l'esperienza. E' necessario essere bene in contatto con se stessi per entrare bene in contatto con quello che si sta vivendo: la bellezza di una chiesa, l'eleganza di un edificio, la suggestione di uno scorcio, l'incanto di un tramonto, il velluto di un fiore, il profumo di un prato, il palpito di un albero, il silenzio di un bosco. Siamo circondati da un'incredibile bellezza e la viviamo spesso con distrazione. Potremmo cominciare ad avere un rapporto diverso con la realtà e muoverci nelle situazioni come in una armonica danza, con il cuore e i sensi aperti. Può essere una passeggiata in una città di notte, tra la quiete e il silenzio, privi della distrazione e dei rumori del giorno; e scopri che le sagome intorno a te si offrono ai tuoi occhi con una particolare intensità, con un diverso sapore.Può essere una colazione in una bella piazza, tra antichi edifici, intingendo storia e croissant nel cappuccino. Oppure seduti in un magnifico caffè, dal sapore antico, a parlare fitto con il tuo migliore amico. O l’arrampicarti per sentieri sconosciuti eppur familiari, su un maestoso monte,il cui eco ti porti ancora appresso dopo essere ritornato a casa. Come l'essere andato in un posto speciale a riaccordare lo strumento - corpo e anima -. O in un tempio giainista, tra indiani silenti, devozioni colorate, movimenti rapidi, suoni di campanelle, figurazioni di riso, preghiera. O star seduti in silenzio, nella maestosa cattedrale, costruita da mani ricche di fede, piena di energia solare e celebrativa che ti porta in una dimensione profondamente meditativa. O abbracciare un albero, sentirlo vivo sotto le tue mani e il tuo corpo, in un palpito ritmico, in sintonia con il tuo respiro e poi sdraiarsi ai suoi piedi, sul soffice tappeto d'erba e provare un senso di pace, di quiete, d’ abbandono. O in un negozio peruviano, un uomo dolcissimo dalla lunga treccia grigia, permeato di qualcosa di speciale, che ti fa un piccolo dono, augurandoti "felicidad interior". O sdraiati sulla calda sabbia, gli occhi immersi in un cielo di straordinaria bellezza, musica di chitarra, un'energia pervadente che ti porta in cima al mondo. O essere un punto azzurro nel sole, tra il bianco della neve, per ritrovare il contatto con te stesso.

S. B.



Giorgio Gaber
foto da www.musicclub.it

"...è come una illogica allegria di cui non so il motivo, non so che cosa sia; è come se improvvisamente mi fossi preso il diritto di vivere il presente. Io sto bene, questa illogica allegria, proprio ora, proprio qui. Da solo, lungo l’autostrada, alle prime luci del mattino...".

"Me, dentro di me, dentro di me... Mi ricordo che correvo il mio corpo mi seguiva era un corpo primitivo e la mente lo tirava la mia mente che trascinava il mio corpo nudo eravamo in due e fra me e me un elastico".

"No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici. E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito".

"La solitudine non è malinconia, un uomo solo è sempre in buona compagnia".

da "Il Teatro Canzone di Giorgio Gaber"



Caro Gaber, mi sarebbe piaciuto intervistarti. Una delle domande che ti avrei fatto è se fossi contento di ciò che avevi raggiunto nella vita. Io penso di sì. Osservando il tuo percorso d’artista, riflesso immagino della tua vita, non si può non notare la tua crescita. Una crescita artistica e umana che non tutti possono vantare. Anno dopo anno ho assistito ai tuoi spettacoli, notandone con piacere lo sviluppo. Ogni appuntamento con te era una gioia rinnovata. Il lavoro che offrivi al tuo pubblico rappresentava brani di vita e di pensiero che accarezzavano, aggredivano, divertivano, facevano pensare. Non si usciva immuni dai tuoi spettacoli! Si era contagiati dall’entusiasmo, dalla carica, dall’amore che ne emergevano. "Non l’amore che si può anche fare, ma l’amore...".

E’ una delle frasi delle tue canzoni che più mi hanno colpito e che hanno destato ancora di più la mia attenzione nei tuoi confronti. Fa intravedere un grosso percorso interiore. Avrei voluto ripercorrerlo velocemente con te, non chiedendoti di rivelarmi chissà quali cose, ma di lasciarmele intravedere. Un’altra domanda che avrei voluto farti è che cosa ti aspettavi, dopo ciò che avevi raggiunto, dalla vita; quale era la cosa che desideravi di più. Mi sarebbe piaciuto sapere come nascevano i tuoi lavori. In che modo ti tuffavi nella tua esperienza, nella tua memoria, nella tua intelligenza per emergerne con pezzi di arguzia e di bravura che facevano vibrare le platee. Far riflettere, divertendo, non è cosa da poco. E tu lo facevi magnificamente, dosando pause, toni di voce, gesti. Quando ti presentavi in palcoscenico eri solo – i musicisti sullo sfondo, dietro a un velo - ma per pochi istanti, perché avevi immediatamente il pubblico con te. Un pubblico affezionato che, come me, non si perdeva alcuna tua comparizione e un pubblico nuovo, giovane, entrambi affascinati dalla tua bravura, dal tuo calore. Mentre assistevo al tuo ultimo spettacolo, un ripercorso del tuo lavoro, in me gioia, entusiasmo, carica sfociavano in un sorriso che mi ha accompagnato tutto il tempo. Un tempo che sembrava senza fine.

S. B.


Formentera
Sabbia e mare e vento e silenzio.
La mano sulla calda rena,
il corpo abbracciato dal vento
l’anima accarezzata dal sole.
Mi sembra di non esistere più
di essere dilatata nell’infinito
miriadi di particelle che danzano col vento
si cullano con le onde esplodono nel sole.
Un grande senso di pace, di non esistenza, di cosmicità.
Sonia e Riccardo che giocano nell’acqua, con guizzi da delfino,
ritornati bambini, per la gioia del loro cuore.
Bisogna imparare a lasciarsi andare,
a vivere la vita,
lontano dalle stereotipie - tante - dai condizionamenti - infiniti -.
Lo smeraldo dell’acqua seduce la mia mente,
la invita all’abbandono, all’arresa, all’assenza.
Un’assenza che diventa presenza,
l’evidenziarsi di un’energia che sembra arrivare da lontano,
ma che scopri essere costantemente in te
se solo sai percepirla.
Silenzio.
Lo sciacquìo dell’acqua sugli scogli,
la brezza che gioca con i capelli,
il caldo del sole sulla pelle.
Il corpo che non è più solo corpo
ma è sabbia e mare e vento e silenzio.


Un posto incantevole in un’isola del mediterraneo fa da cornice a queste parole scaturite in pochi attimi dall’anima. Quando si parla di anima si pensa a qualcosa di religioso ed eterno, il che può farcela sentire lontana. Invece potremmo considerare l’anima come qualcosa di molto vicino e intimo. Qualcosa con cui possiamo entrare in contatto ogni volta che lo desideriamo. Solo che c’è troppo rumore i noi, troppo caos, perciò non riusciamo a percepire e a decodificare i messaggi che arrivano da questa parte di noi stessi. La strada per arrivarvi esiste: l’ascolto del corpo attraverso il rilassamento e il respiro. Ponendoci quotidianamente in uno stato di quiete, di silenzio, siamo in grado di arrivare oltre quello che vediamo e tocchiamo. Conoscere se stessi è la cosa più importante della propria esistenza, perché solo sapendo chi si è veramente si è in grado di utilizzare tutte le risorse per raggiungere i propri obiettivi. A volte ci si sente mancanti di qualcosa , senza sapere bene che cosa e si cerca di colmare questo vuoto, questo senso di solitudine, con un appagamento dall’esterno, dagli altri, dal lavoro, dagli svaghi; sono dei palliativi che placano per un po’ i reali bisogni. Perché non è fuori che si deve cercare, ma dentro se stessi. Allora ci si deve porre in uno stato di particolare attenzione e di ascolto. Il corpo partecipa ad ogni emozione, ogni ansia, ogni collera vissuta e reagisce a queste sensazioni entrando in contrazione muscolare. Con l’andar del tempo, questa tensione aumenta e si fissa nel corpo creando quella che lo psicanalista Wilhelm Reich ha definito "corazza caratteriale". Risultato: si vive con una percentuale ridotta del proprio potenziale e ci si sente poco vitali, insicuri e insoddisfatti. Se invece si elimina questa tensione muscolare , si crea una distensione fisica e mentale. In questo è di grande aiuto anche l’immersione nella natura: mare, montagna, prato, lago, contatto con la terra e le sue vibrazioni. Natura, rilassamento e respiro: le chiavi per aprire la porta che conduce là dove è il proprio vero essere.

S. B.



Scena da l'Attimo fuggente
foto da www.oubliettemagazine.com

Credevo non ci fossi più.
E’ passato così tanto tempo, tanta vita!
E poi un incontro, una delle tue numerose allieve:
"Suor Prassidea? L’ho vista l’altro giorno,
è sempre uguale, sempre dolce".
La tua dolcezza
in contrasto con l’impeto di certe tue parole!
I tuoi occhi,
di un incredibile azzurro,
che accompagnavano ora l’una ora l’altro.
Sei stata una splendida educatrice,
un’ insostituibile insegnante.
L’entusiasmo con cui parlavi di tutto era contagioso.
Stimolavi nelle nostre menti adolescenti
la voglia di sapere,
la gioia di conoscere.
L’appuntamento del mattino era il più atteso:
il momento della ‘meditazione’.
Leggevi poche righe,
poi le parole ti fluivano
piene di intensità e fascino.
Ti seguivo attenta e contagiata,
con la voglia di essere come tu proponevi.
La tua bella intelligenza e la tua voce appassionata facevano vibrare le corde del mio essere.
Ero protesa alle immagini che evocavi,
ai propositi che suggerivi.
Seducevi la mia mente
avida di modelli eccezionali.
Stimolavi il mio cuore,
bramoso di tutto.
Creavi spazio nella mia anima,
dilatandola a grandi promesse.
Che gioia sapere che ci sei ancora,
che stai ancora combattendo,
che stai ancora donando,
per far crescere e maturare altri esseri.
Come hai fatto con me.

Grazie


Meglio potersi mettere nelle mani di qualcuno che sa quello che sta facendo.Troppo spesso l’educazione è affidata a coloro che non hanno raggiunto la maturità (e l’equilibrio!) per guidare gli altri. L’insegnante deve essere un po’ maieuta, condurre a una nascita, fuori dal buio grembo della non conoscenza, al palpito della vita. Non è facile insegnare ed è ancora più difficile farlo bene. E non sto parlando solo di cultura, di istruzione, ma di ricchezza interiore. Gli educatori hanno una grande responsabilità: la loro presenza, il loro operato, può veramente essere importante e influenzare il futuro degli allievi. E’ una posizione bellissima, se l’insegnante vi si colloca bene, con vera e profonda disponibilità, non solo a ‘dire’ ma a ‘dare’. Dare a migliaia di esseri nel corso di una vita: quale impegno prezioso! Essere in grado con la propria presenza, con la propria - perché no - saggezza, di favorire lo sviluppo di allievi che sono in un’età di assorbimento, di apertura, di voglia di conoscere e di crescere. Forse ci siamo un po’ dimenticati della nostra infanzia e della nostra adolescenza, ma, se riuscissimo ad acchiapparne qualche lembo, vedremmo probabilmente una figura di insegnante che è stata importante. I ricordi sfuggono, ancora di più le emozioni vissute, la cui intensità mai avremmo pensato di scordare e sembra che ci siamo dimenticati di un insegnante speciale; ma il seme che ha gettato è presente in noi, ha lavorato nel tempo e ha prodotto i suoi frutti. Spesso l’insegnante dimentica questo: che il suo lavoro è una missione; missionario e rivoluzionario al tempo stesso, perché dando gli elementi per una nuova conoscenza, smuove il deserto dell’ignoranza, ne modifica i confini e dà spazio a nuove costruzioni, in una struttura in continua (si spera) evoluzione. Lo stesso dovrebbe avvenire nell’insegnante: una continua crescita e revisione, per il rispetto di sé soprattutto e per il rispetto delle persone che gli sono state affidate. Siamo tutti dei addormentati che hanno bisogno di conoscere la propria regalità. Questo è uno dei compiti dell’insegnamento.

S. B.



Pagoda
La luce è sorta,
ora puoi cominciare a vedere la tua vita con chiarezza.
Un nuovo giorno nasce
e tu ti svegli con coraggio,
pronta ad un nuovo inizio.
E’ questa un’opportunità
per trasformare il tuo modo di vedere le cose,
ampliare la tua visione
ed espandere la sfera della tua consapevolezza.
E’ un momento di ispirazione,
l’orizzonte è chiaro e limpido.
Comprendendo tutto ciò che accade intorno a te,
continua il tuo viaggio
e supera i tuoi limiti.


Leggo queste parole su una carta Lakota, della tradizione dei Sioux, alle soglie della partenza per la Birmania (Myanmar), insieme a un gruppo del Villaggio Verde di Cavallirio, guidato da Bernardino del Boca. Lo sento come un vaticinio per questo viaggio: mi sento vicino a qualcosa, con un sottile diaframma che separa da una nuova consapevolezza.

Dopo una prima sosta a Yangon, raggiungiamo la pagoda di Lokananda (mondo della beatitudine), in riva al fiume Irrawadi. Magnifica, energia permeante, bambini che offrono fiori profumati, due monache in meditazione. Sosto silente, gusto appieno questo momento e mi lascio permeare da questa energia di beatitudine. Poi, come d’uso, faccio il giro a sinistra del tempio, percuoto la campana col bastone, facendola risuonare per condividere i meriti con il mondo.

In bus, verso il monastero di Yokesone, provo un senso di gratitudine e un pensiero mi attraversa la mente "incamerare per emanare". Davanti ai miei occhi scorrono belle casette di legno, ricoperte con liste intrecciate di bambù, costruite a mo’ di palafitte per via dei monsoni. Arriviamo al monastero di legno, sopraelevato, dove un monaco ci dà informazioni, tè, meditazione. Poi ci disperdiamo intorno, in una specie di villaggio di tempietti e un museo, una bella costruzione di legno scuro, con soffitti intarsiati. Vari Buddha in esposizione, per lo più dorati, tutto molto antico e bellissimo. Poi ci dirigiamo verso il monte Popa, magica sede dei "Nat" i signori invisibili che i birmani credono essere quotidianamente presenti nella loro vita, come controllori. Il monte si erge sulla piana, simile a un panettone e prevede una salita, a piedi e rigorosamente senza scarpe come in ogni tempio: una serie di scalinate ripide, alcune ripidissime che mettono a dura prova chi soffre di vertigini. Scimmiette dispettose trapuntano qua e là la salita, che avviene però senza incidenti, tachicardia e fiatone a parte. Trafelati pellegrini, visitiamo i numerosi tempietti e due in particolare catturano la mia attenzione: uno con un bellissimo Buddha che mi porta rapidamente in uno stato meditativo, con sensazioni di elevata energia e un grande benessere. Nell’altro, un Buddha dorato con un’ atmosfera e una energia meno elevate; tuttavia dà la sensazione di essere un "esauditore" di richieste.

Mandalay. Visita al Mahamuni, il grande Buddha, una statua coperta d’oro, avvicinabile solo dagli uomini. Il rito prevede che si portino dei sottili foglietti d’oro da applicare alla statua, portatori dei propri desiderata. Il gruppo femminile, non potendo avvicinarsi, li affida al gruppo maschile. La statua diviene sempre più grande e morbida, così coperta da strati di foglie d’oro ed emana una grande energia che si percepisce anche a distanza. Il pranzo dell’ultimo giorno dell’anno si svolge ai laghi imperiali, in un caratteristico ristorante dalla forma del Karaweik, il naviglio reale.

Yangon. Pagoda Sule con numerosi Buddha, cappelle, decorazioni antiche e bellissime, merletti di mosaici. Vita quotidiana e religiosa si intrecciano: un via vai calmo, un bimbo col sederino nudo, figure prone, chi prega, chi chiacchera, chi legge il giornale all’ombra di una cappelletta; una donna anziana si accende un sigaro, accosciata vicino a un Buddha. Sosta allo storico caffè dell’albergo Strand, elegante testimonianza della dominazione britannica, prima di raggiungere la Shwedagon pagoda. E’ difficile da descrivere nella sua grandiosità: elegante, enorme, bellissima, magica. Abbiamo la fortuna di percorrerla durante il tramonto, l’oro della cupola a campana è caldo e radioso; la bellezza degli interni, delle colonne, dei Buddha è stupefacente. Di ritorno la sera dopo, la Shwedagon è ancora più suggestiva: l’atmosfera, le luci, l’oro delle cupole, una minor confusione; ci mescoliamo a un gruppo in preghiera.

Prima di lasciare Yangon, shopping allo Scott’s Market, dove acquisto un "lonji" l’abbigliamento tradizionale birmano, simile a un pareo cucito, annodato davanti per gli uomini, di lato per le donne. Lo faccio sistemare da una vecchiettina, antica come la sua macchina per cucire.

All’inizio del viaggio, qualcuno che lo aveva già fatto mi disse: "la Birmania rappresenta una specie di punto e a capo". Così è stato. E il viaggio continua...

S. B.



Uomo con gatto
Manhattan, Central Park,
una bella palazzina fine ottocento,
Armando Acosta, regista del film-concerto
“Romeo.Juliet”,
cammeo della 47° Mostra del Cinema a Venezia.
Mi attende come un re assiso al trono,
mazzi di fiori secchi alla parete alle sue spalle.
Ha creato un’opera di straordinaria bellezza:
testo modernizzato di Shakespeare,
musica di Prokofiev,
un cast di 150 gatti e un grande attore.
La peculiarità di questo film
è che la storia è interpretata,
come un elegante e sensuale balletto,
dai gatti di Venezia e New York.
L’unico personaggio umano del film,
John Hurt che è “La Dame aux Chats”,
un’eccentrica barbona veneziana
che aiuta i gatti a fuggire
dai conflitti che dilaniano il Vecchio Mondo
e li conduce verso la libertà del Nuovo Mondo.
E’ lì che Romeo, un bel gatto grigio-fumo
e Juliet, un angora turco
dal pelo bianco e soffice come una nuvola,
si innamorano...


Opera affascinante , dove i gatti si esprimono attraverso il movimento sapientemente rallentato e comunicano le loro sensazioni grazie a un dialogo interiore, verbalizzato da attori famosi: Vanessa Redgrave, Ben Kingsley, Maggie Smith, Robert Powell. Le immagini, la musica, il ritmo, i colori, la storia fanno di questo film un capolavoro poetico, che crea un’atmosfera particolarmente suggestiva e meditativa. Chiedo ad Armando Acosta perché gatti invece di persone. "Perché attraverso il gatto l’uomo ha la possibilità di conoscersi meglio; con gli animali ha spesso un senso di dominazione, vediamo col cavallo per esempio, senz’altro col cane. Può dire "è il mio cane" ma non può veramente dire "è il mio gatto", perché è un animale indipendente, che non appartiene a nessuno. Il gatto rappresenta il modo in cui l’essere umano dovrebbe comportarsi: semplice, amorevole, intuitivo. Col gatto si può avere una relazione quieta, silenziosa; ecco perché per molte persone anziane averne uno in casa, nella stanza dove dormono, in grembo, è preferibile alla convivenza con un altro essere umano. Io stesso vivo con alcuni dei protagonisti del film e ho con essi un rapporto insolito e speciale: non devo dire loro neanche una parola, perché sanno esattamente ciò che sto pensando. Molti mi hanno chiesto come ho ammaestrato i felini a fare tutte quelle cose nel film; non li ho ammaestrati, mi sono limitato a sistemare la cinepresa, creare una situazione e aspettare: essi si muovevano e agivano dimostrando una forte connessione con me, con le mie aspettative. In particolare il rapporto con Juliet, la splendida angora turca, è stato ed è tuttora speciale: nel momento in cui salgo su un aereo diretto a casa, si nota dal suo comportamento che sa che sto arrivando! Anche se quando arrivo non si comporta in modo festoso: quando apro la porta e le dico "Ehi dolce", mi guarda quasi degnandosi, a dire "Oh, si, salve". C’è un episodio umoristico di Tony, Tibaldo nel film, il re dei gatti; ha il ruolo del cattivo, ma in realtà è molto dolce e ha bellissimi occhi. Durante il montaggio del film, è entrato nella stanza, ha guardato lo schermo dove c’erano in quel momento Juliet, Romeo e Mercuzio e poi si è sistemato su una sedia; ma appena è comparso lui sullo schermo, si è tirato su, è saltato in cima al televisore e si è sporto dall’alto per guardare se stesso! Il gatto è unico, la sua bellezza è unica e una cosa intelligente da fare è meditare con lui, tenendolo in grembo. Occhi chiusi, ascolto del suo respiro: la mente diventa quieta e silenziosa. Se si ascolta il respiro del gatto, si diventa coscienti del proprio. E quando una persona è cosciente del proprio respiro, comincia a conoscere di più se stessa".

S. B.



Due amiche
"Questa tua stanza mi commuove"
ti ho lasciato scritto in un biglietto accanto al telefono.
La stanza: così calma nel suo lilla,
così bella affacciata sui tetti,
così magica.
Mi sono seduta sulla poltrona
ad assaporarne fino in fondo l’atmosfera.
Penso al giorno precedente,
il mio arrivo alla stazione,il nostro saluto festoso,
la corsa in macchina verso le colline di Torino,
Il nostro parlare fitto,immerse nel sole.
Ci eravamo viste solo due volte
sapendo l’indispensabile l’una dell’altra.
Ora l’incontro, la comunicazione,
l’entrare insieme in un mondo conosciuto e amato:
la ricerca interiore
a volte meravigliosa a volte difficile.
Mentre parliamo ci accorgiamo di molti punti in comune,
è piacevole, ci rassicura.
Ognuna riconoscer nell’altra una compagna di viaggio,
ognuna sente che procederà con una nuova forza intorno,
un nuovo sostegno.
Il pomeriggio nei prati,
l’indispensabile contatto con la natura.
Il sole, il verde,
la silenziosa forza degli alberi
che ci donano nuove energie.
Nella quiete del prato siamo in ascolto:
nel silenzio si fanno strada sensazioni.
vibrazioni, immagini simboliche.
E’ un momento magico,
il momento dell’ascolto della vita.


Si dice "ho tanti amici, ho pochi amici" ma sappiamo cos’è veramente l’amicizia, quale tipo di relazione sia? Siamo attenti a ciò che contribuisce a creare una vera amicizia? Nella vita ognuno procede secondo le proprie inclinazioni e si lascia andare spesso a delle stereotipie senza capire veramente come si sta muovendo. Ci si lascia vivere, essendo degli attori esecutivi e non creativi e ciò non permette di entrare in contatto veramente con gli altri. Perché questa è l’amicizia: il vero contatto con una persona, condito da affetto. Il rapporto d’amicizia può essere superiore al rapporto di coppia, che ha sovente la caratteristica della caducità, mentre l’amicizia può più facilmente avere la caratteristica della continuità e non vi è più solitudine. Nell’amicizia vera e di qualità ci si incontra per il piacere di stare insieme, ma anche per una crescita personale, uno sviluppo creativo, una revisione di vita. A volte per la complementarietà: si cerca l’anima gemella e non si pensa che questa può essere un‘amica, un amico, con cui c’è una sintonia a più livelli. Non è il sesso che crea la complementarietà, ma qualcosa di più profondo e vasto, che fa si che si "riconosce" qualcosa nell’altro, che diventa un compagno di viaggio. Purtroppo viviamo in un paese culturalmente affondato nella (dalla?) famiglia. Quella d’origine e quella che ci si è creati che vengono spesso non solo al primo posto, ma al secondo, al terzo... eliminando lo spazio affettivo e di tempo che potrebbe essere dedicato alla relazione d’amicizia. Relazione che dovrebbe avere le caratteristiche della fratellanza, quasi una famiglia allargata (e scelta), costellatata di presenza, partecipazione, supporto, divertimento, complicità (basti pensare al modello anglosassone, ben espresso nei film "Notting Hill" e "Il diario di Bridget Jones"). I sensi di colpa - inutili a sé e agli altri - verso la famiglia e un malinteso senso del dovere sono spesso il deterrente all'opportunità di vivere e coltivare questa straordinaria, benefica e preziosa relazione umana: l'amicizia.

S. B.



Casa a Findhorn
Scozia,
verde, castelli, cornamuse, erica.
Findhorn,
cuore pulsante, al nord, vicino al mare.
Terra magica
che ha fornito ortaggi enormi, fiori,
angeli ed esseri di natura.
Un particolare punto energetico,
che richiama ad energie superiori,
al contatto con una più vasta dimensione.
Una vita intensa in mezzo alla natura,
un’attività giornaliera che si intreccia
con la vita degli altri.
E’ un continuo fare insieme qualche cosa,
spazi personali pochi, quasi nessuno,
eppure avviene una continua revisione interiore.
L’esposizione alle energie di Findhorn,
centro di forza magnetica,
porta rapidamente in contatto con il proprio essere,
con i limiti dell’io
e con gli spazi che attendono al di là di esso.
Il canto del cigno.
E’ quasi un gioco,
un via vai di incontri collettivi, individuali,
danze, giochi, confessioni, pianti, sorrisi, abbracci.
L’augurio di incontrare l’Inaspettato.


La Fondazione Findhorn è una comunità spirituale fondata nel 1962 da Peter e Eileen Caddy e da Dorothy MacLean, nel nord-ovest della Scozia, vicino al villaggio di pescatori Findhorn. Inizialmente divenne nota per i fiori e gli ortaggi che crescevano in un terreno sterile e che raggiungevano dimensioni mai viste (cavoli fino a 20 chili!), grazie ai suggerimenti ricevuti in meditazione dai deva (esseri celesti). Oggi la Fondazione Findhorn è un centro di educazione spirituale che fornisce l’opportunità di vivere e lavorare insieme, offrendo programmi che promuovono lo sviluppo interiore. Uno di questi è la "Experience Week" con meditazioni, danze, incontri con i membri della comunità, giochi, passeggiate nei boschi, lavoro. E’ un’opportunità per ognuno di esplorare la relazione con il tutto e contribuire al processo di trasformazione.

Il primo giorno: seduti in cerchio, al centro una candela accesa circondata da erbe e fiori che conferisce al nostro incontro raccoglimento e ritualità. Ognuno dice il suo nome e il motivo della propria presenza. Volti nuovi, sconosciuti, che si guardano con curiosità o indifferenza; sentimenti questi che sfumano col trascorrere dei giorni, nella dinamica degli incontri. Dopo la meditazione, la scelta intuitiva del lavoro da svolgere nella comunità nei pomeriggi a venire. Una voce interiore mi suggerisce "Cularn" e mi trovo a lavorare nel giardino e nell’orto di questa casa, sulla strada che porta al mare. Le mie mani sulla terra, a togliere sterpaglie e sassetti portati da un vento impetuoso. Liberare il giardino dalle impurità, da ciò che può impedirne lo sviluppo. Mi piace. Ultimo giorno: in cerchio,con un sasso al centro, secondo una usanza pellerossa; solo chi lo avrà in mano potrà parlare, mentre gli altri ascoltano con attenzione. Ognuno di noi comunica così qualcosa al gruppo, a conclusione di questa settimana. Findhorn addio. La nostra partenza è forse l’inizio di qualcosa che cambia, qualche cosa che germoglierà rigogliosa come i semi di Findhorn.

S. B.